IL TRIONFO DI POPPEA (E DI UN BAROCCO ALGIDO)

Alla Scala in scena l’ultima opera di Monteverdi con Alessandrini sul podio. Regia notevole e interpreti di prim’ordine. Con qualche scelta azzardata…

di Elena Percivaldi

L’“Incoronazione di Poppea” è, si sa, un capolavoro indiscusso di un teatro in musica allora (siamo nel 1642) ancora agli albori ma, grazie al genio di Claudio Monteverdi, già perfettamente maturo in tutte le sue dinamiche musicali, drammaturgiche e sceniche. L’edizione in scena alla Scala in questi giorni non solo non ha deluso le aspettative ma ha coronato, nel migliore dei modi, un percorso iniziato nel 2009 sotto l’era Lissner in coproduzione con l’Opéra di Parigi che aveva l’ambizione di portare la trilogia Orfeo-Ulisse-Poppea in un teatro che, fino a prova contraria, è da sempre molto più aduso all’opera “opera” che non agli arzigogoli del Barocco. Ma l’operazione, grazie anche alla straordinaria bacchetta di Rinaldo Alessandrini, si è conclusa con successo e anzi farebbe suggerire di proporre con maggior frequenza al Piermarini queste incursioni nell’Antico. E non solo in quello, giocoforza, più conosciuto, provando a osare ancora di più.

In quest’opera i personaggi sono inquietanti archetipi, idee e metafore, il più delle volte doppie e ambigue. Si gioca facile con Amore, Virtù e Fortuna, ovvie incarnazioni tanto care al Barocco delle rispettive idee e valori astratti. Ma anche gli “umani” sono a loro modo archetipi. Per la loro natura fallace non possono esserlo però di una cosa sola, lo sono di almeno due: un valore e il suo contrario. Come tutti noi, non sono marmi tutti d’un pezzo ma vivono di una vasta gamma di contraddizioni. Ed è questo, crediamo, al di là della musica il segreto della grandezza dell’opera, che va ben oltre ogni rigido schematismo.

Poppea dunque è la sensualità fatta persona. Il che può essere positivo quando si ama senza nulla pretendere in cambio, ma diventa deleterio se si tramuta (ahi, la cronaca di ieri come di oggi) in mezzo di ascesa e arrampicata sociale, non importa a quale prezzo. Nerone è solo parzialmente il sanguinario tiranno che certa storiografia ci consegna (in fondo impone “solo” la morte a Seneca e ripudia Ottavia, ma ben altro negli annali gli è imputato) per essere un uomo preda di un amore che, cosa paradossale per un monarca, non è capace di governare. Ottone è il perenne innamorato che languisce al cospetto di Poppea ma, da lei respinto, non esita a trovare requie tra le braccia di una nuova fiamma Drusilla. Seneca, che pure è l’antonomasia del filosofo “morale”, è tratteggiato dai soldati con meno nobili caratteristiche: cortigiano traditore, avvoltoio rapace, “empio architetto che si fa casa sul sepolcro altrui”. E che dire di Ottavia? Incarnazione della rettitudine morale e della moglie-matrona violata, certo, ma non vuole forse vendicarsi della rivale minacciando addirittura di morte il povero Ottone se non affonderà il brando nel suo petto? L’unico personaggio tutto sommato solo positivo dell’opera è dunque Drusilla, che ama incondizionatamente Ottone al punto da prestargli gli abiti per compiere l’attentato senza destar sospetti. E poi, una volta scopertosi, e non esiterà a voler sacrificare la sua vita per salvarlo. Per fortuna Nerone, che non attendeva altro, interverrà per tramutare la loro morte in un confortevole (si fa per dire) esilio, e ripudierà finalmente la mandante del misfatto, l’ingombrante Ottavia.

Ci sono poi la nutrice e Arnalta, personaggi popolari e di registro “comico”, e i ruoli di contorno che servono a spezzare la tensione e a imbastire piacevoli intermezzi secondo l’uso del tempo.

Chiude quest’opera in cui spietatezza, arrivismo, falsità e ingiustizia la fan da padroni un magnifico duetto d’amore (discusso e da molti ormai ritenuto spurio) che rappresenta il trionfo di Poppea, ora imperatrice e libera di darsi a Nerone alla luce del sole.

Dal punto di vista musicale l’Incoronazione è sicuramente un lavoro molto problematico per via della mancanza e contraddittorietà del materiale scritto. Esistono, come si sa, due versioni (la prima di Venezia e una seconda di Napoli), a loro volta rimaneggiate varie volte anche da altri autori. Alessandrini ha scelto di attingere per la versione scaligera ad entrambe le partiture, scegliendo nei singoli numeri di volta in volta tra le due quella che a suo giudizio era la più efficace. L’orchestra in buca è molto contenuta ed equilibrata. Riesce ad amalgamare il suono e a risolvere – forse a volte in maniera discutibile, ma per lo meno ci prova – le tante difficoltà dovute all’incompiutezza dell’orchestrazione. Ma forse un organico così ridotto, quasi da camera, per un teatro come il Piermarini comporta un’eccessiva dispersione del suono.

Dicevamo dell’archetipicità dei personaggi. La scelta della regia, bellissima, di Bob Wilson, corre tutta in questo senso. Tutti, nessuno escluso, si comportano come marionette guidate da fili invisibili, si muovono a scatti, indossano (riprodotte da un trucco pesante) le maschere tipiche del teatro classico, la loro mimica è sempre ipersemplificata, ora eccessiva ora bamboleggiante. Il motivo è semplice: rappresentano pulsioni eterne e senza tempo.

Non vi è nulla dei soliti orpelli barocchi, non trionfi di marmi né broccati preziosi, parrucche e abiti ingombranti. L’epoca nei costumi (di Jacques Reynaud) è richiamata da linee sobrie ed eleganti, per le donne abiti lunghi e gorgiere sollevate sul dietro, per gli uomini finte armature laccate. Le scene sono essenziali, illuminate con luci ora fredde ora calde a seconda delle situazioni, ma comunque in toni per lo più neutri a sottolineare la sempiterna validità del Tutto.

Passiamo alle voci per dire che il cast è stato quasi tutto all’altezza della situazione. Iniziamo dalle note più positive. Il ruolo di Nerone dovrebbe essere, da prassi, ricoperto da soprano mentre Alessandrini ha scelto Leonardo Cortellazzi, che ha tratteggiato un imperatore brillante come la sua armatura. Voce adamantina, squillante, forse un po’ leggera. Ma molto piacevole a sentirsi. La Poppea di Miah Persson (che ha impersonato anche La Fortuna) è stata una fantastica, sensuale e conturbante concubina ottimamente cantata dall’inizio alla fine. Peccato solo che la regia così “fissa” abbia penalizzato (ma i motivi li abbiamo detti) il debordante erotismo che dovrebbe sprigionare dalla coppia, ad esempio, nel meraviglioso duetto del primo atto (“Signor deh, non partire”). Ottima anche la prova di Sara Mingardo, Ottone perfetto sia vocalmente che scenicamente, superlativa Monica Bacelli come Ottavia dolente ma determinata, splendida voce e prescenza altrettanto icastica. Abbiamo apprezzato moltissimo anche la Drusilla di Maria Celeng, dotata di un piacevolissimo timbro e di una bella agilità. Qualche perplessità ha destato invece Andrea Concetti che ci è parso vocalmente un po’ debole per un ruolo “pesante” e profondo (in tutti i sensi) come quello di Seneca. Così come qualche interrogativo lo ha suscitato anche la scelta del registro vocale di Arnalta. Sia lei che la Nutrice infatti di solito sono ruoli maschili en travesti, ma qui si è scelto di mantenere la prassi solo per la Nutrice (un grottesco e divertente Giuseppe De Vittorio, che ci è piaciuto molto) mentre Arnalta è stata interpretata (a dire il vero senza particolari slanci) da Adriana Di Paola. Perché?

Chiudiamo con una piccola nota su Mirko Guadagnini, che è un tenore che personalmente apprezziamo tantissimo e non solo nel repertorio barocco: lo ricordiamo ad esempio memorabile nell’Orfeo a Cremona del 2003 (allora fu Apollo sotto la direzione di Dantone), ma anche lo scorso anno alla Verdi nel monumentale War Requiem di Britten. Fu Nerone, per dire,  a Lione con Christie sul podio. Ci è dispiaciuto vedergli affidato “solo” il ruolo di Valletto (e primo console, vabbè), che peraltro sarebbe da soprano, quindi con lui non c’entra assolutamente nulla. Peccato davvero.

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